L’ORSO

L'Orso
L’Orso – Foto di Valeria Pierini

A volte la musica che ascolto, forse più appropriata per un ultracinquantenne, e la mia abitudine a mezzi di fruizione desueti come vinili, fanzine e concerti nei club, mi illudono di non appartenere alla categoria dei ventenni. Non percepisco un immediato senso di identificazione con le liriche e l’immaginario di una band come L’Orso, a cui i critici – chi con sufficienza chi con ammirazione – hanno attribuito il ruolo di voce di questa generazione; perciò, quando decido di intervistarli prima del loro concerto al Supersonic Music Club di Foligno, chiamo in soccorso Simone e Jacopo de Il Nuovo Mondo Parallelo, per evitare lo scontro impari tra la sottoscritta, musicalmente pensionabile, e i freschissimi quattro che, per di più, risponderanno sempre in modo corale alle domande.

Come vi sentite rispetto alla definizione, data da alcuni, di “band generazionale”?

Figo… chi l’ha detto?!

Non farò nomi…Ma vi fa piacere?

Sì ci fa piacere…Anche se è una definizione un po’ impegnativa, perché a un certo punto finisce la generazione e allora devi saperti rinnovare.

Infatti la mia seconda domanda sarebbe stata sul vostro futuro, quando passerà la generazione d’appartenenza, ovvero la nostra generazione…

Smetterete di ascoltarci!

Mi aspettavo le classiche risposte sul rinnovamento, l’evoluzione artistica, il cambiamento di prospettiva sull’arte e sul mondo in generale…

Naturalmente dovrà esserci una crescita anche nostra; il pubblico che ha iniziato a seguirci sul momento continuerà, anche perché dal punto di vista musicale siamo già abbastanza cresciuti, c’è stato un cambiamento, anche nostro interiore… una piccola evoluzione.

Alcune recensioni hanno chiamato in causa la nostalgia che c’è nei testi degli 883. E mi chiedo, come si può essere nostalgici già a vent’anni, venticinque? L’effetto Max Pezzali è dietro l’angolo.

Ci hanno sempre detto che con la crisi non c’è futuro; perciò si tende a guardare indietro, se ti dicono che guardare avanti è meglio non farlo…e quindi è colpa dei nostri padri [ridono]. La nuova generazione è una generazione che nasce già vecchia, si è nostalgici già a quindici anni ormai, come modo di vivere, di comunicare…Adesso già si comincia a dire che belli gli anni Novanta, che tra l’altro è stato un sacco di tempo fa.

Che tra l’altro meno male che sono finiti…

Tranne che per gli 883. E poi è già finito anche il revival degli anni Novanta.

Adesso c’è il revival dei primi anni Zero…

Cosa succedeva negli anni Zero? Niente. C’era Dawson’s Creek, nel 2000 c’era O.C….Negli anni Zero c’erano le popstar, Britney, Christina, dopo la fase delle boyband…Perché io volevo tanto far parte di una boyband, ma mi sono perso il passaggio, ancora non ero appassionato di musica.

Nel vostro immaginario molto peculiare, quanto il rapporto tra la provincia e Milano vi ha condizionato nei testi, ma anche nel modo di intraprendere il vostro percorso musicale?

Tantissimo. La nostra generazione ha questo vizio, che è anche una necessità, di andare a studiare fuori; quindi c’è questo grande stacco nel passare da un paesino di 2.500 abitanti come Ivrea [da cui proviene Mattia Barro, voce, chitarra e testi]  ai 2 milioni di Milano. Lì non ci sono posti per fare i concerti, finché non ho avuto l’età per dire a mia madre “vado a sentire un concerto” non ne potevo vedere.

Temete che l’importanza che attribuite ai testi possa distogliere dall’aspetto strettamente musicale?

In Italia sei fottuto. Se canti in italiano, la musica non la ascoltano quasi più. Se leggi le recensioni dei nostri dischi, non si capisce che genere facciamo; conta solo il testo, ma chi sono quelli che giudicano i testi? Molto spesso sono giudizi puramente personali, e forse è la parte più difficile da giudicare… se ti metti ad ascoltare loro non fai più dischi. Che poi non esistono più le riviste, vuoi dirmi che i siti che fanno recensioni hanno influenza? Tutti scrivono come se l’avessero, è come chi ha Instagram e crede di essere un fotografo… è un’idea che si è diffusa in questa generazione, che è facile fare le cose e quindi tutti fanno, senza rendersi conto dei propri limiti. Soprattutto per la facilità: se I Cani hanno fatto un disco con Garageband, hanno aperto un mondo macabro di gente che ha scoperto che c’erano i preset sul computer, che la tastierina puoi suonarla col Mac, e a mettere una batteria in 4 siamo capaci a farlo tutti… anche nello scrivere, in media sono ragazzi tra i sedici e i ventidue anni, con tutti i limiti del caso, magari qualcuno è molto bravo, qualcuno invece ha visto dieci concerti e scrive come se ne avesse visti milioni. Certo, anche noi non siamo quattro che sono usciti dal conservatorio. In sintesi, secondo me non esiste più affezione alla firma, se Rockit ha scritto ‘male’, che ne sai chi ha scritto male?

Forse questo dipende anche dalla mancanza di selezione sia dei collaboratori che degli articoli.

Fanno bene, dal momento in cui non si selezionano i musicisti e tutti vogliono avere la loro recensione; allora chiunque può scrivere. Se ci fosse il decimo dei gruppi, Rockit non avrebbe bisogno di tutti questi collaboratori. La fregatura è voler coprire tutti i dischi che arrivano, se ti arrivano venti dischi al giorno, sei costretto a prendere dei diciassettenni che hanno visto due live delle Luci e pensano di saper tutto del cantautorato e dell’indie. Poi adesso sono tutti indie, nessuno sa nemmeno quello che significa ed è una definizione che non c’entra niente col genere che facciamo.

Nessuno dei cosiddetti gruppi “indie” suona come i Fugazi, che pure sono tra i padri dell’indie.

Nessuno suona come in quel periodo lì, ma neanche come nel periodo del ritorno dell’indie, in cui c’erano stati i Bloc Party, gli Arctic Monkeys, che hanno comunque smesso di fare quelle robe… in Italia adesso sta venendo fuori che siamo tutti indie, quindi L’Orso e i Gazebo Penguins fanno lo stesso genere.

A proposito dei vostri rapporti con il contesto musicale italiano, vi considerate più influenzati dalla musica italiana o da quella straniera?

Per fare quello che vogliamo fare non si è posto il problema della lingua, perché siamo in Italia e il pubblico che ci ascolta capisce l’italiano; non puoi lamentarti se canti in inglese di essere considerato meno, non puoi lamentarti se nel tuo paese nessuno ti capisce o cita le tue canzoni, se vuoi avere respiro internazionale vai all’estero. Io che scrivo i testi non ho mai ascoltato il cantautorato italiano, ma l’ispirazione necessaria per scrivere in italiano non viene solo da quello.

Cosa ne pensate della cosiddetta “scena” legata alle etichette indipendenti?

Io ho alcune perplessità rispetto al modo di lavorare di alcune etichette; mi sembra che in genere facciano troppo rispetto alle proprie possibilità: se fai uscire molti dischi, poi non puoi seguirli; se il disco me lo sono fatto io in cameretta e noi ci siamo visti due volte, è come se lavorassi con una major. L’etichetta è un ente con cui ti devi scontrare da mattina a sera, che dovrebbe avere le conoscenze che a te mancano del mercato musicale e con cui dovresti stabilire un rapporto di crescita musicale reciproca.

L'Orso on stage
L’Orso on stage – foto di Valeria Pierini

 

 

Nonostante ormai sia chiaro che i tour siano una scusa per mangiare e bere, l’ospitalità commovente del Supersonic Music Club non ci impedisce di proseguire nel nostro attacco serrato, ora passato, insieme ai boccali di birra, ai ragazzi de Il Nuovo Mondo Parallelo.

Potete dirmi una canzone o un gruppo a cui vi siete ispirati?

Mattia: Io mi sono formato con il rap italiano, che ha segnato il mio modo di scrivere: quello che metto a livello di metrica viene da quello stile; ma sono da sempre anche un fan dei Belle & Sebastian e del pop nordico, che sposa freschezza e introversione, che poi è quello che fa il twee pop di base; Gaia [archi]: musica nordica e cantautorato; Giulio [batteria]: io non saprei rispondere, non il cantautorato, ascolto molta roba recente e mi faccio influenzare dalle cose più disparate; Tommaso [basso]: dal blues al brit pop ai Led Zeppelin fino ai cantautori, Graziani per esempio; poi non tutti gli ascolti che potrebbero influenzarci finiscono immediatamente nelle nostre canzoni.

Siete tutti accomunati da un elemento: la precarietà anche in questo settore; fra qualche anno pensate che vi dedicherete ancora alla musica? Come vi vedete fra quattro o cinque anni?

Gaia: In realtà, personalmente, L’Orso è una valvola di sfogo dal lavoro normale, la mia routine consiste nella vita d’ufficio. Mattia: Io l’opposto: ho provato a fare dei lavori “normali”, ma spero che sia questo il mio lavoro; ho sempre cercato un’occupazione che mi desse tempo di scrivere e suonare, perché la musica italiana, a questi livelli, non ti dà da vivere.

Come siete entrati in contatto con la Garrincha? E com’è lavorare con loro?

Garrincha ci ha scritto un’email dopo aver sentito il nostro primo EP autoprodotto (registrato con Andrea Suriani in casa) e abbiamo inserito Serenata Rap in una compilation di cover anni ‘90. Quando porti il tuo lavoro a un terzo capisci che hai bisogno di qualcuno che ti apra gli occhi; Garrincha ci ha proposto di fare tre EP più il disco, ci stiamo trovando molto bene,  e io tra l’altro mi sto occupando dell’ufficio stampa per loro.

In futuro, con chi vi piacerebbe collaborare? Uno split con…?

A me gli split non piacciono, perché danno l’impressione che ognuno voglia fare il figo per cazzi suoi; invece il featuring è tutta un’altra questione, venendo dal rap è la base, e secondo me è una cosa che sarebbe molto bello portare anche in questo genere, quindi per quanto possibile noi cerchiamo di farlo. La cosa più bella del mondo quando suoni è suonare con gli altri; il concerto che abbiamo fatto con l’orchestra aveva questa motivazione: abbiamo suonato con trenta persone, non so quante band piccoline possono farlo; la cosa è stata fatta per dimostrare che anche in Italia le cose se vuoi sono possibili, senza stare a lamentarti. Anche se abbiamo chiesto al nostro pubblico uno sforzo economico notevole (ma costava comunque meno di un concerto di Dente).

 

 

Dopo che Mattia ci confessa che i Perturbazione sono la sua band italiana preferita e che gli piacerebbe collaborare con loro, usciamo improvvisamente dal flusso della conversazione, accorgendoci che abbiamo messo benevolmente all’angolo i ragazzi per oltre quaranta minuti; finita la birra e anche la reciproca resistenza psicofisica, concludiamo la cena-intervista lanciandoci fuori dal locale alla disperata ricerca di un caffé. I giovani non sono più quelli di una volta.

 

Intervista di Angie, Simone e Jacopo – Redazione NMP

Foto di Valeria Pierini

Nella descrizione del video di youtube trovate il link per il free download della canzone poco sopra. Alternativamente cliccate qui.

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